Articoli su Giovanni Papini

1935


Glauco Natolli

Papini o l'orco nel sacco

Pubblicato su: L'Italia Letteraria, settimanale di Lettere, Scienze ed Arti, anno X, p. 1

Data: 05 gennaio 1935




   Confessiamo che Papini non c'interessa più da gran tempo e facciamoci l'esame di coscienza. Di chi la colpa? Di noi, troppo presto stanchi di lui, o di lui, che ha finito con lo stancarci si presto? Noi affermiamo candidamente qui dí essere incolpevoli e aggiungeremo che se Papini continuerà di questo passo, quelli che, come noi, appartenendo ad un'altra generazione, sfogliarono avidamente la collezione de La Voce per conoscere ed amare Papini, pur serbandogli in cuor loro gratitudine, se lo toglieranno definitivamente dal cuore. Perchè, da dieci anni in qua, Papini non ci dà, ahinoi con quale larghezza! che bruttissimi libri, scritti unicamente con intenti polemici, cioè scandalistici, nei quali non si riconosce più l'antico scrittore e poeta, anzi, quel che è peggio, neppure quell'uomo d'ingegno e di cultura, che in lui tante volte ammirammo. Non basta, a definir ciò la parola decadenza, la quale ci farebbe passar per ingrati; occorre dire che Papini, dal Sant'Agostino a quest'ultima Pietra infernale ci sembra invaso da isteriche smanie come mostrano chiaramente Gog il capitolo sull'Oedipe di Gide, Dante vivo e un recente articolo su Shakespeare, che ci parve addirittura oltraggioso. E' chiaro, oggi come oggi, che delle antiche esigenze vive e tutte vitalissime del Papini dì Lacerba e de La Voce, una sola è rimasta: quella polemica; ed è chiaro pure che questa esigenza, non più fondata su ragioni etiche ed estetiche, come era invece in passato, doveva necessariamente isterilirsi si da mutare Papini in un cacciatore, e spacciatore, di vani sofismi che gli si possono perdonare soltanto se lo si considera alla stregua di una inacidita zitella. Cosa che, con Papini, memori di quell'ardore generoso che lo animò in altri tempi si spesso, noi non ci sentiamo di fare. Per rirdiscuterlo ancora, bisognerà dunque immaginare che questa mania di polemizzare, cercandosi e facendosi buono ogni pretesto, corrisponda ad un periodo di interiore sterilità, da cui potrà sorgere, fors'anche totalmente rinnovato nello spirito e nelle forme, lo scrittore e il poeta Papini. Perchè insomma questò Papini da controriforma noi rifiutiamo dí riconoscerio se prima egli, convocata la sua chiesuola in un concilio di Trento, non ci spieghi con quale spirito dobbiamo leggere, cioè rileggere, i libri che egli ha scritto da quando lo ha segnato la Grazia, e che fin qui ci son parsi assai brutti.


* * *

   Ed ecco che, sgranando questo amaro rosario, costituito dai tomi che Papini coritinua a sfornare, siamo giunti alla Pietra infernale (Morcelliana, Brescia, Lire 12), che aduna saggi e polemiche di carattere sacro e profano. Diremo subito che il difetto principale del libro è nella sua sostanziale disarmonia, derivante dal fatto che questi scritti, nati accidentalmente non per soddisfare una esigenza speculativa ma per servire particolari contingenze, non si coordinano nell'unità di un pensiero: donde risulta inqualificabile in sede critica la ragione che mosse l'autore. Aprono il libro due scritti di religione, e una nota avverte che Papini tendeva fin dal 1908 alla sua attuale posizione spirituale nei riguardi della madre Chiesa: nota tendenziosa, che ci fa sospettare una ricerca di pezze d'appoggio, per una pretesa coerente dialettica del pensiero papiniano. E su questi scritti, noi che abbiamo sempre dubitato della sincerità di certi atteggiamenti di Gianfalco, non ci soffermeremo, tanto più che, per usare un'espressione che già alla prima pagina egli ci fornisce, l'arganamento faticoso dei suoi discorsi ci sembra assai lontano dalla semplicità di quel catechismo cattolico, a cui, come avverte la cauta nota, Gianfalco dovè per buona parte la sua conversione all'Agnello. Ma osserveremo: che modo è questo di, far la storia del pensiero per così rapide sintesi, da piegare parole, verità e sistemi a stolide costruzioni, quasi ad uso degli inesperti frequentatori di università popolari? A qual pubblico intende parlare Papini? Non certo agli studiosi di filosofia: e di ciò ci persuade — ad esempio — il suo scritto contro il Croce, dal quale chiaramente si deduce com'egli, per l'occasione, opti per l'empirismo e per un certo materialismo storico imbevuto di gesuitismo. O vorrà dirci Papini che criticando il Croce sul terreno della distinzione crociana (che questo era l'unico terreno adatto per una simile critica) egli avrebbe potuto ugualmente infilare tante perle quante è riuscito a infilarne? A noi pare che egli abbia tentato di demolire un filosofo con le sole armi che all'uopo erano meno adattete, e cioè con i luoghi comuni che si sogliono chiamare buonsenso, pseudofilosofia quotidiana alla quale si può anche concedere, quanto concerne la pratica, un credito di una certa entità. Ma che dire di uno che volesse confutare il concetto filosofico dell'imnmanenza di Dio affermando — come Papini afferma (cfr. pag. 121) — che l'uomo, per quanto l'abbia tentato (questo inciso non era di tal gravità da meritare una maggiore cautela?) non può adorare e obbedire l'uomo...? E' chiaro che il linguaggio di Papini è ben diverso da quello del Croce e che, nel caso, toccava a Papini seguire il Croce per poi dissentirne: ma questo implicava una certa fatica, che Gianfalco ha reputato superflua, a torto s'intende. E proprio a lui noi vorremmo consigliare, se ha ancor voglia di filosofiche tenzoni, di alzar gli occhi dai libri di liturgia, che ostenta di conoscere a fondo, per ritemprarsi su quei filosofi, da Bruno a Vico, da Campanella a Kant a Hegel, che Croce e Gentile si sono (la frase esemplare è naturalmente di Papini!) dati a dissotterrare, celebrare; citare, etc.
   Ma anche questa è quistione che non ci tocca se non indirettamente, e solo in quanto indice di una mentalità e di un sistema. Noteremo però che Papini dichiara in una noticína (cfr. pag. 154) di aver tolto, nella ristampa delle Stroncature per l'opera omnia «quegli scritti sul Croce che non erano di pura discussione teorica». E' da credere che una illuminazione futura lo indurrà n sopprimere anche questo capitolo: poichè poco probabile che in esso si tratti di discussione puramente teorica.
   E veniamo ai due capitoli che seguono: Lo scrittore come marestro e La moralità nella letteratura, che ci interessano assai da vicino. A solo tempo Papini non perse, naturalmente, l'occasione di dir la sua a proposito di contenutisti e calligrafi e sprecò molte parole — quelle che ritroviamo in questo volume — in una questione che richiedeva soltanto intelligenza e buonafede. Dichiara dunque Papinì che lo scrittore deve inegnare qualche cosa: «Omero non era soltanto l'aedo delle corti, ma intendeva educar nuovi eroi, e fare opera dl storico. Eschilo è insieme alle sue tragedie, sacerdote e cittadino; Virgilio, col suo poema sacro, aspira a ridare ai romani una seria coscienza della religione e delle origini patrie», etc. etc. La letteratura, a detta di Papini, deve esser dunque tutta didascalica, gnomica o peggio, e lo dimostrerebbero quelle intenzioni che egli graziosamente attribuisce a Omero, Eschilo, Virgilio, e a tutta la nobile compagnia che gli aduna nelle pagg. 162-163; quanto poi a questa nostra letteratura, si sa già da gran tempo, quali siano le opinioni di Papini, ed è inutile qui richiamarle tanto più che due secolí, XVII e XVIII, salvi s'intende Galileo, Vico e qualche altro, Papini li regalerebbe «tutti in un mazzo a chi li vuole». Qual'è lo stato delle nostre patrie lettere? Ecco fatto: «Per i colti la poesia persa (una dotta nota a pag. 167 spiega al lettore il significato di questo significativo!), per gl'incolti il romanzo giallo». Quanto poi all'altro capitolo, La morale nella letteratura, esso non è ché un codicillo al precedente, senza le amenità che quello contiene ma con in più una tale banalità di scrittura, che rende il tema assolutamente ozioso e noioso.
   Ci dispensi il lettore dal rendergli conto dei capitolí che seguono. Noi vogliamo da qui dire a Pàpini che è troppo facile intessere chiacchiere a vuoto e trinciar giudizi sommari, o pescar nel torbido com'egi usa di farer da qualche tempo in qua imbrogliando le carte. Noi sappiamo benissimo quali valori implichi un'opera d'arte, né mai ci siamo sognati di perdere il nostro tempo a inseguir vane parole o a costruirci torri d'avorio; siamo anzi convinti che molte ire dei nostri accusatori, e Papini tra questi, si siano moltiplicate proprio per aver noi dimostrato di possedere una moralità da difendere, non cattolica nè protestante, ma cristiana ed umana; e che la nostra qualità dì letterati non é affatto disgiunta, e tanto meno negatrice, dalla nostra qualità di cittadini. Ma di questo pare si siano tutti convinti alla fine e Papini poteva risparmiarsi di ristampar quueste pagine, tutt'altro che felici e spesso contraddittorie dalle quali emerge soltanto il malanimo e una specie di disfattismo che puzza di necrofilia. Si tenga Papini i suoi personali livori e lasci a noi le ragioni dell'arte, che son sempre i miti, e quelle della critica che son sempre i concetti: anche in quest'epoca, a dispetto di Papini, i posteri troveranno scrittori che potranno considerare maestri, e saranno stati quelli che mai si proposero da far da maestri: mentre lui, Papini, proprio da quando ha deciso di diventare un maestro ha finito perfino ohn folle' opow contraddittoria culla cuotitsx) tioitqwo rtlAn Mimo o urta PPele di diptattisùtol pdantt. (11 nbrofiliat Sì 'Cena. Pallini 41 enini pere-Amali lirnrl e 14:, hog le! ragioni ~arte. ChPi con sempre j miti; ritte4, che con compre t concetti; gnehe 'in queetiCepoca, kIL NOLI, serbtort mal sal proposero di. far da naae~ strtz mentre lui, Papini„proprio d4 quando ha deciso di diventare tinrrgaitro 'ha finito perdno dies, sere 5i9iittore


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